“Uomo dell’aria tu colori col tuo sangue gli istanti del tuo passaggio tra di noi, i limiti sono nell’anima di chi è a corto di sogni”
(“Trattato di funambolismo” Philippe Petit)
LA PARTENZA
“Ogni tanto si incontrano strani personaggi…
Entrano così, di colpo, nella tua vita e, anche se per un istante, lasciano il segno del loro passaggio.
Può essere chiunque, chiunque stuzzichi la tua fantasia, chiunque assorba il tuo sguardo annullando completamente tutto quello che c’è intorno. È una sensazione che non so spiegarti, ma che di sicuro puoi capire.
Ci sono persone che ti attraggono come magneti…
Non puoi farci nulla, è un fatto puramente istintivo.
Ero immobile davanti a una vetrina sul lungomare, stavo guardando le ultime tavole e… hai visto che ci sono le tavole in offerta?
Sto pensando di prendermene una ma non so se me la sento di lasciare la mia Betty così, alla fine mi è sempre stata fedele e ne abbiamo viste di tutti i colori insieme, oltretutto…”
“Scusa, ma questo c’entra qualcosa?”
“Veramente no!”
“Allora vedi di stringere, se no qui facciamo notte!”
“Ok, ok… Dunque, come stavo dicendo, stavo guardando i prezzi quando l’ho vista passare: sfrecciava su un paio di pattini neri, stretta in un sottilissimo costume da bagno. Sono rimasto immobile a fissarla mentre scompariva nella folla. Ho mosso un paio di passi e l’ho vista di nuovo che si allontanava sul vialetto.
Sono rimasto così, pietrificato da quella visione; le macchine dietro di me suonavano, ma io ero lì, immobile. Ho cominciato a correre, a correre fino a che non mi è mancato il fiato.
Correvo con tutte le mie forze verso il mare e mi sono tuffato. Sono rimasto sott’acqua finché ho potuto, poi con le ultime forze che mi sono rimaste ho ricominciato a correre nella direzione del vicolo in cui l’avevo vista dileguarsi e sono stramazzato sulla sabbia dopo pochi secondi.”
“Ma mi stai prendendo per il culo?”
“No”
“Posso fare un commento?”
“Certo!”
“Per me ti sei bevuto il cervello!”
“Forse ai ragione…”
“Ragazzi, questa sta vincendo il premio per la conversazione più stupida che abbia mai sentito”.
“È solo questo deficiente che sta delirando, la mancanza di sonno deve avergli bruciato l’ultimo neurone”.
“Sarà, ma state un attimo zitti che sta sorgendo il sole”.
“Si va beh, ma sua maestà quando arriva?”.
“Taci!”
“ok!”
“Abbiamo detto taci!” (in coro)
“…”
Anche l’attesa aveva suo bello: il fremito del vento che passa, della marea che sale lentamente, e delle onde che mangiano a bocconi sempre più grandi il bagnasciuga.
Ma quel giorno l’attesa aveva un fascino in più! Il fascino del mistero, dell’avventura che comincia, della magia di partire.
Lontano… verso l’orizzonte, una marea di piccoli puntini, isole, o forse chissà nuovi continenti da esplorare. In quella fioca, rossastra luce di primo mattino: Jack, Tia e Cuba ascoltavano in silenzio il rumore del mare accarezzando lentamente le tavole e interrogandosi su quali mostri o dee popolavano quelle isole lontane.
Sognando e scavando delle buche coi piedi nella sabbia, aspettavano…
Aspettavano Sua Maestà: come amavano chiamarlo i ragazzi. Una corrente di vento da nord, gelido, forte e impetuoso ma sempre costante, tanto rara da essere per molti solo un’ illusione; lo avevano studiato e cercato per anni e finalmente erano riusciti a calcolare dove sarebbe passato esattamente e quando e quando. Erano finalmente al momento della verità e i primi refoli erano più che a sufficienza per far scorrere l’adrenalina nel corpo dei tre mentre lo sentono cominciare a crescere e fischiare tra le sartie delle barche ancorate al molo a poche centinaia di metri da loro.
“Sapete mio nonno diceva sempre: “la pazienza del pescatore è la sconfitta del pesce!””
“Certo che tuo nonno ne diceva di stronzate…”
“Ma la volete piantare!!”
Cuba era silenzioso per carattere. Assaporava gli istanti di quiete ogni volta come se fossero gli ultimi della sua vita, come se fossero minacciati costantemente dal rischio di un caos perpetuo che sarebbe durato per un’eternità.
Non c’era una ragione, era semplicemente così; ogni attimo di pace e di riflessione era unico, irripetibile, e quel piacere non riusciva a condividerlo, era il suo tesoro il suo segreto e il suo mistero.
Nulla traspariva dalle espressioni del suo viso: solo la pace del silenzio che lo circondava, interrotto (ma non per questo turbato) dai suoni del mondo pulsante di vita.
E Sua Maestà intanto soffiava. Soffiava sempre più forte fino a che la spuma del mare non fu una immensa distesa di neve.
Era il momento tanto atteso; il vento dava prova della sua forza agitando le foglie dei cespugli e sollevando in piccoli vortici la sabbia.
“È ora!” disse Cuba alzandosi e fiutando l’aria salata.
Si guardarono negli occhi e presero le tavole. Non dissero nulla, non ce n’era bisogno, ormai era il vento a parlare. Solo il vento, che teneva il suo monologo: paura e coraggio; solo per quello erano lì, solo per affrontare una nuova grande sfida.
A volte non basta stare fermi ad ascoltare, ci sono oratori che non hanno bisogno di alzare la voce per farsi sentire. Si allontanano e chi vuole ascoltare deve alzarsi e partire.
Era così. E così lo seguirono, erano li’ per quello.
Con l’acqua alla vita, appoggiati coi gomiti sulle tavole si cercarono l’un l’altro con lo sguardo per farsi coraggio: un cenno del capo e via, verso l’orizzonte, cavalcando le onde, senza mai voltarsi indietro.
Erano partiti.
Ora c’era solo il mare. Nulla più. Una meta imprecisata da raggiungere e le onde da superare.
Tia, Jack e Cuba si inseguivano e si superavano l’un l’altro. Tre bambini nell’estasi del gioco. Troppo felici per avere paura, troppo determinati per perdere tempo a controllare quanto mare avevano percorso.
E intanto il vento cresceva.
Sapevano che avevano poche ore di tranquillità. Verso mezzogiorno il vento poteva diventare davvero incontrollabile e in mare aperto non esiste previsione possibile di quello che può accadere.
Il blu intenso del cielo si mescolava con il profondo del mare. Un mare piatto, scosso solo in superficie dalle raffiche di vento continue. I nervi tesi, i muscoli contratti, lo sguardo perso oltre i confini dell’orizzonte e l’irregolare rimbombo delle tavole sulla superficie dell’acqua accompagnavano i tre amici nella nuova avventura, gli davano forza e coraggio. Erano felici, felici di essere lì, di affrontare quella sfida insieme, senza nessuna ragione; solo per amore dell’avventura, per essere ancora più uniti. In quella sfida contro i propri limiti non c’era competizione, solo la certezza di non essere soli nel momento del bisogno.
Avevano fatto parecchi giorni di pratica, ore ed ore senza mai fermarsi. Avevano studiato attenente il comportamento di Sua Maestà come devoti sudditi e sapevano che la sua vera forza non stava nella velocità del vento; quello era solo il primo passo, il primo livello del gioco. La sfida era con le onde. Il vento del nord spazzava via le nuvole dal cielo, ma caricava il mare che si gonfiava per miglia prima di rovesciarsi l’una sulle antra. E loro in mezzo, bagnati e con i primi segni di stanchezza dovuti al percorso affrontato fino a quel punto.
Tia si mise in mezzo ai due amici.
Aveva una espressione seria, concentrata ma serena, Cuba e Jack lo osservarono in silenzio. Le prime onde offrivano la possibilità di fare qualche piccolo salto. Era un ottimo sistema per scaricare la tensione, lo avevano già sperimentato parecchie volte, ma sapevano che stavolta non potevano consumare troppe energie. Nel giro di poche ore infatti avrebbero dovuto dar fondo a tutte le forze di cui disponevano nella speranza che sarebbero bastate.
“Manca poco – disse Jack – , poi si scatenerà l’inferno…”
I due amici annuirono; anche loro stavano osservando i cambiamenti del tempo. Sapevano perfettamente cosa sarebbe successo e adesso era davvero arrivato il momento di stringere i denti e cominciare a lottare.
“Vi racconterò una barzelletta tanto per sdrammatizzare” urlò Tia osservando soddisfatto la strana espressione di sgomento misto stupore che i due amici fecero mentre si interrogavano sulla sua sanità mentale.
Cominciavano finalmente a distinguere le isole su cui sarebbero approdati. A parecchie miglia di distanza ora le riuscivano a distinguere nitidamente ma sapevano che il difficile era appena cominciato. Il mare infatti cominciava a farsi a vista d’occhio più grosso e gli sguardi dei tre furono presto troppo impegnati dalle manovre per poter fissare l’orizzonte. Non avevano mai affrontato un’acqua tanto ostile e la stanchezza dovuta alle tante ore di vento rendeva ancora più difficile mantenere l’equilibrio e la rotta.
“Mettiamoci in fila indiana – disse Tia – Jack, tu vai per primo, poi Cuba, io starò in coda, se qualcuno cade dobbiamo cercare di raggiungerlo e girargli intorno in modo da non perderlo di vista d’accordo?”
Tia era il surfista con più esperienza e per mare i suoi consigli erano in passato sempre stati risolutori. Si allinearono.
Jack, in testa alla fila, doveva tenere la rotta e guidare il gruppo tra le onde. Fece affidamento a tutti gli anni di mare e disegnò d’istinto la rotta verso l’isola più vicina.
Il mare non accennava a rallentare il ritmo delle onde, e incredibilmente, in quel trasparente pomeriggio d’estate incominciò a salire dall’acqua una leggera foschia. Fresca, umida, frizzante avvolse lentamente le isole lontane e la terra che avevano lasciato.
“Stiamo più vicino e cerchiamo di uscire di qui il più in fretta possibile. Guardate le bussole, questa è la direzione che stiamo seguendo, si va di qua finché non siamo fuori. In bocca al lupo.”
L’urlo di Tia era il chiaro messaggio di pericolo. Sarebbe bastato un attimo di distrazione per perdersi chissà dove, non potevano permettersi il minimo errore. Terrorizzati nel profondo non poterono far altro che stringere i denti e combattere.
Le onde continuavano incessantemente a far saltare le tavole, che sbattevano con violenza sulla superficie dell’acqua. Sapevano che non potevano reggere per molto in quella situazione, sapevano che prima o poi non sarebbe riusciti a nascondere a lungo la paura con la stanchezza.
Percorsero così più di quattro miglia: sognando, sperando, immaginando oltre la nebbia che sembrava interminabile, di essere già arrivati. In quell’atmosfera di palpabile prigionia non esisteva conforto possibile. Forza, determinazione, coraggio, paura: erano le uniche cose che tenevano in piedi i tre amici nel nulla. Cuba e Tia osservavano davanti a loro e controllavano costantemente la posizione dei due compagni. Jack fissava il mare scorrere sotto la sua tavola, cercava il modo migliore per affrontare le onde. Sapeva che Tia e Cuba non lo stavano perdendo di vista, poteva quasi sentire i loro respiri stanchi ed affannati vicino a lui, ma sapeva anche che erano tutti allo stremo delle forze, tra poco qualcuno sarebbe caduto, era questione di attimi, la paura sarebbe diventata presto panico incontrollabile e il primo a cadere avrebbe inevitabilmente trascinato con sé anche gli altri in una impensabile operazione di soccorso. Alzò gli occhi, e osservò il volto dei compagni: vide distintamente i loro occhi stanchi distendersi e aprirsi, si guardò in torno e realizzò che la nebbia si stava diradando rapidamente intorno a loro.
Si guardarono e sorrisero. Le onde si alternavano sempre più mansuete, non capiva come ma Jack sapeva che stavano per approdare a terra.
“Ci siamo”, si disse mentre cercava di gettare il suo sguardo oltre la nebbia.
A poche centinaia di metri da loro, come se fosse emersa dalle acque, un’isola immensa offriva una lunga spiaggia asciutta illuminata dal rosso del tramonto. Con le ultime forze rimaste portarono in secca le tavole, e stramazzarono al suolo esausti.
L’ISOLA
Tia si svegliò che il sole era già alto. Sentiva il caldo penetrare attraverso la muta che nel frattempo si era perfettamente asciugata. Restò per qualche attimo immobile sdraiato sulla sabbia a fissare l’azzurro del cielo, sapeva che il primo movimento sarebbe stato un concerto di ossa scricchiolanti e di muscoli indolenziti, era sempre così dopo una lunga traversata, ma quella mattina sapeva che sarebbe stato ancora più tragico del solito. Per rinviare il primo movimento ricostruì la giornata precedente: la partenza, il viaggio, la nebbia, la grande avventura. Per certi aspetti sembrava tutto un sogno, quelle lunghe, interminabili ore di vento e schizzi a cui si erano sottoposti; non se lo sarebbe mai più dimenticato. Si guardò intorno per cercare i due amici: Jack era a pochi metri da lui, ancora addormentato in una delle posizione più strane e scomode che avesse mai visto, Cuba non c’era, o meglio, non era lì con loro. Stava seduto, rannicchiato sotto il sole, a fissare un orizzonte tanto vuoto da spaventare perfino un sognatore come lui.
“La prossima volta si affitta un motoscafo!” disse Tia trovando finalmente la forza di alzarsi. Incrociò il suo sguardo con quello dell’amico e si avvicinò.
“Buon mattino vecchio mio, dormito bene?”
“Come un sasso! senti, già che sei in piedi, sveglia un po’ il cadavere. Mi sa che un bel bagno è quello che ci vuole per cominciare la giornata.”
“Bella idea, non è che hai voglia di darmi una mano?”
“Come no! Non vedi che sto già correndo verso quella inutile salma…” disse restando seduto e immobile.
“Ok, ci riprovo… Amabile giovine, se non ti alzi e non muovi il culo mi sa che invece che resuscitarlo lo seppellisco definitivamente”
“Ehi, ma lo sai che è una soluzione a cui non avevo assolutamente pensato? Fallo: trova un badile e facciamo di quest’isola il luogo del suo eterno riposo, hai la mia benedizione”
“…”
“Ok, ok, mi alzo!”
Jack riuscì a trovare le forze di aprire gli occhi giusto in tempo per vedere il mare trasparente a pochi centimetri dal suo naso, poi fu suo malgrado costretto nuovamente a richiuderli.
Cominciarono a giocare come bambini nell’acqua gridando; poi si raccolsero a cerchio seduti con la superficie del mare appena sotto le spalle. Cominciarono a rievocare l’avventura del giorno prima lasciando liberamente i fatti diventare leggenda: “Il vento era tanto forte da far percorrere alla tavola parecchi metri nell’aria prima di scontrarsi col mare duro come la pietra e le onde tanto alte da sembrare montagne. E la nebbia? …Vi ricordate ragazzi? La nebbia era così densa da essere solida, sembrava di attraversare migliaia di ragnatele una sull’altra…” Il sole caldo di primo pomeriggio asciugava il collo dei tre continuamente bagnato dall’acqua. Erano felici: felici di essere lì, felici di essere insieme, così come avevano cominciato. Uniti da un legame ancora più stretto. Avevano affrontato insieme il mare, sfidato la forza degli elementi e ce l’avevano fatta; sì la battaglia era vinta. Non avevano ceduto alla fatica, al panico, ai mille dubbi e alle preoccupazioni che avevano continuato a sussurrare alle loro orecchie per quasi tutta la traversata. Da soli, nella nebbia, erano riusciti a trovarsi, a farsi forza l’un l’altro fino alla fine.
Per mezz’ora continuarono ad azzuffarsi nell’acqua, poi la fame prese il sopravvento.
“Ragazzi: ho una sorpresa per voi…” disse Cuba sorridendo divertito mentre frugava nello zaino.
“Cuba!!!” urlarono in coro i due amici mentre lo osservavano tirare fuori una bottiglia piena di coca e rum.
Osservarono l’orizzonte mangiando del pane mentre il fornello da campo faceva bollire l’acqua per la pasta, avevano mangiato pochissimo il giorno prima, e dovevano recuperare tutte le forze per la traversata di ritorno.
“Ragazzi, non notate nulla di strano?” uscì sottovoce dalle labbra di Jack, che improvvisamente aveva smesso di sorridere.
“Cosa?”
“Non c’è nulla tra noi e l’orizzonte.”
Tia fu il primo ad alzarsi in piedi: era vero! Non c’era davvero nulla davanti a loro, una infinita distesa d’acqua. Avrebbero dovuto vedere molte isole: a cominciare da quella da cui erano partiti. Avevano navigato verso sud-est per quasi tutto il tragitto. Sul suo volto lo stupore si trasformò presto in preoccupazione.
Jack e Cuba lo capirono subito. Qualcosa non funzionava davvero.
“Controllo le carte! Intanto qualcuno butti la pasta che non mi sembra proprio il caso di morire di fame con tutti i casini che staranno per succedere.”
“Non sarà che siamo ubriachi? Se fossimo ubriachi si spiegherebbe tutto, no?”
“Neanche se bevi quindici litri di benzina hai delle allucinazioni del genere!”
“Ehi, non dirmi che parli per esperienza personale… come ti sei permesso di fare una cosa simile senza chiedermi di partecipare?”
“Cuba, ti prego levamelo di torno e fagli fare la brava massaia che cucina. Ho bisogno di silenzio, cazzo!”
La voce tremante di Jack aveva sicuramente toccato gli amici che si guardarono e si allontanarono in silenzio.
Matita, goniometro e quatto sassi per tenere distesa sulla sabbia la carta nautica, Jack cominciò a fare conti e cercare di ricostruire il loro percorso.
Dove siamo? Come ci siamo arrivati? Come faremo a tornare a casa? Queste e altre domande continuavano a ronzargli nella testa mentre sfogliava il portolano e confrontava le carte.
Non poteva essere così difficile: il mare, la bussola, la rotta, le isole; tutto funzionava sempre, o, per meglio dire aveva sempre funzionato correttamente fino a quel momento. Tia, da buon logico, affrontava sempre a testa alta la battaglia contro le stranezze del mondo con la mano sul cuore e la coscienza pulita; ma la cosa che lo stupì maggiormente fu la completa e assoluta serenità quando, dopo quatto ore di carteggio (da brave donne di casa Tia e Cuba lo avevano nutrito senza interromperlo), dovette accettare la sconfitta.
“Giovani –disse sorridendo una volta alzatosi in piedi con un lieve accento ironico- ho una buona e una cattiva notizia”. Osservava quattro occhi più incuriositi che preoccupati che lo fissavano, chiedendosi che cosa ci facesse quello strano ghigno di bizzarra tranquillità sul volto dell’amico.
“Ci siamo persi!”
“Ok, e quella buona?”
“A dire il vero questa era quella buona, quella cattiva non avete la minima idea di quanto può sembrare strana…”
“E sarebbe?”
“Dunque… ho studiato le carte per tutto il pomeriggio, conosco perfettamente queste acque, e…”
“E…”
“Quest’isola non esiste!”
LA NOTTE
Osservando un orizzonte sconosciuto, seduti sulla spiaggia di un’isola che non esiste ci sono tre amici che si interrogano sui misteri che li avvolgono. Seduti intorno a un fuoco, sotto le prime stelle dell’imbrunire si guardano negli occhi in silenzio cercando di trovare risposte nell’animo dei compagni.
Era stata una giornata faticosa fatta di fatti inspiegabili, di interrogativi senza risposta di lunghi giri di perlustrazione intorno all’isola, di nebbia e di paure, ma la nebbia era calata e ora un tetto di stelle vegliava sul loro riposo.
È facile farsi travolgere da mille pensieri nelle calde notti d’estate, quando ci si perde con lo sguardo nell’immensità del cielo i pensieri seguono il loro corso, ma nella mente di Cuba c’erano solo domande e un profondo senso di impotenza. Doveva riconoscerlo: non sapeva né dove né come cercarle le sue preziose risposte.
Alternava lo sguardo tra dai suoi amici che dormivano al cielo che li sovrastava quando abbassò gli occhi per tuffarsi in quell’orizzonte sconosciuto da cui non erano mai arrivati.
Prima di chiedersi per l’ennesima volta cosa ci facessero lì, si sentì improvvisamente osservato. Intorno a lui centinaia di riflessi verdi si avvicinavano ondeggiando. Cuba non seppe spiegarsi come ma non ebbe paura, e quando due di quelle strane luci si avvicinarono tanto da far emergere dalla notte il folto pelo di un gatto non ne fu minimamente stupito.
Era enorme, con uno sguardo sottile e penetrante, aveva un tono calmo, un’espressione di grande pace; fece dei movimenti lenti e composti fissandolo con le palpebre socchiuse come se fosse in una sorta di dormiveglia e si sedette esattamente di fronte a lui. Gli altri gatti si erano coricati nella sabbia a cerchio intorno a loro circondandoli con un anello di smeraldi verdi riflettendo i pallidi raggi della luna; il gatto parló: “Sono Matisse e questa è la nostra isola. Tu chi sei? Perché sei qui?”
“ Noi veramente…”
“No, ti ho chiesto perché tu sei qui?” ripeté con ferma tranquillità.
“Io… a dire il vero non c’è una ragione precisa, siam… sono qui per errore.”
“E dove stavi andando prima di sbagliarti?”
“Su un’isola.”
“Quale?”
“Ma… non lo so; un’isola qualsiasi credo…”
Aveva un tono tranquillo ma profondamente irritante, Cuba non riusciva a fare a meno di ascoltare il suo interlocutore anche se ogni parola non faceva altro che stimolargli un senso di repulsione e fuga. Lo sguardo placido di chi ha capito tutto e non vuole spiegarti nulla era stampato sul volto dell’animale che non faceva altro che metterlo in difficoltà’ con le sue domande e incessanti.
“E perché sei sicuro di essere qui per errore?
Hai poche risposte amico mio, è per questo che hai la sensazione di esserti perso.”
“Ma… Io…”
“Cerca dentro di te, solo quando capirai il perché cerchi delle risposte vedrai attraverso la nebbia e la tua ricerca non avrà più senso”.
Passarono degli attimi senza tempo poi il mare cominciò a parlare e i gatti così come erano comparsi svanirono nella notte chiudendo gli occhi e allontanandosi con piccoli passi felpati. Matisse solo si girò un’ultima volta nella notte per regalare a quell’essere fragile e bizzarro la chiarezza e la quiete infinita del suo sguardo, ma Cuba ormai non c’era più. In piedi, a braccia aperte rivolto verso le onde che si increspavano sempre di più assaporava il vento che gli accarezzava la pelle come non aveva mai fatto. Poteva sentire il sangue scorrere nelle sue vene, la linfa vitale percorrergli la colonna vertebrale a grandi e cadenzati respiri assorbiva l’universo che lo circondava diventandone parte.
E Cuba capì, vide la sua vita e la sua storia nella metafora del surf e nella incredibile avventura che stava vivendo. Molte persone passano la maggior parte del loro tempo navigando a vista e preferendo le proprie acque a quelle che non conoscono, gli altri ci provano: alcuni perdono dopo un po’ la voglia, si spaventano, e si fermano, altri navigano facendosi trasportare dall’istinto, dominando gli elementi continuando senza sosta a tenersi in equilibrio sulla cresta delle onde. La loro felicità è immensa, il loro cuore calmo; sono al di sopra del tempo che passa, lo tengono in pugno. Possono percepire la vita pulsare sovrana intorno e dentro di loro, essere parte di un tutto che ha origine solo dalla propria esistenza e che al tempo stesso la giustifica, dandogli una ragione per essere”.
Non esisteva altro. Cuba non aveva più dubbi o incertezze. Guardava il cielo sorridendo sentiva il suo corpo vibrare in armonia con la pace di quel luogo; guardava l’orizzonte piatto in cui l’azzurro del giorno scompariva nelle acque profonde e capì che non aveva più bisogno di cercare momenti di quiete, non ne esisteva ragione. Era tutto dentro di lui così come all’esterno: tutte le domande e tutte le risposte e leggerle era solo questione di pratica.
Adesso sapeva, capiva. Quella sera sarebbe salita nebbia e lui l’avrebbe attraversata. Non aveva paura, vedeva oltre, era solo l’inizio di un nuovo percorso.
L’alba saliva. Cuba si mosse con passo deciso verso la sua attrezzatura; si mise la muta, lo zaino e raccolse da terra la tavola. Si voltò verso l’oceano e lanciò il suo sguardo oltre l’orizzonte mentre la nebbia saliva dal mare avvolgendo l’intera isola.
Con i piedi a immersi in un mare di pece e la tavola appoggiata sul pelo dell’acqua al suo fianco, si fece avvolgere dal manto denso e fumoso e chiuse gli occhi. Sentiva in lontananza il rumore delle onde che correvano verso di lui, il vento che lentamente lo incalzava a partire, raffica dopo raffica.
Aprì gli occhi di colpo, e dopo aver attraversato con lo sguardo il manto bianco che lo sfidava ci si tuffò con le stesse speranze di chi tuffa il proprio sguardo nel ventre della luna piena.
Nella chiara luce del mattino Cuba volava felice tra le onde. Era in uno stato di tale euforia da non riuscire a far altro che stare calmo e concentrato. Nella nebbia che lo avvolgeva vedeva ogni cosa.
EPILOGO:
Il racconto termina qui. Arrivato sulla spiaggia da cui erano partiti, Cuba si è voltato e ha visto al suo fianco Tia e Jack, anche loro appena usciti dalla nebbia. Si sono seduti nella sabbia e hanno finito la bottiglia di coca e rum che avevano cominciato in quell’isola inesistente mentre il sole all’orizzonte scompariva tra il mare e le piccole isole di fronte a loro. Si addormentarono sotto un tetto di stelle.