Che privilegio straordinario sarà per noi e per i nostri figli, assistere a quella che credo sarà la più grande rivoluzione della storia umana: capire noi stessi. L’idea di riuscire in una simile impresa è insieme elettrizzante e inquietante.
V.S. RAMACHANDRAN
Argomenti:
– Il pensiero della crisi e i paradigmi del postmoderno
– Storia e crisi della modernità
– I paradigmi fondanti del postmoderno
– Antropologia del modello sistemico
– Linguaggio e gestione della complessità
– La struttura del pensiero scientifico
– L’errore di Cartesio
Il pensiero della crisi e i paradigmi del postmoderno
In termini di storia della cultura la modernità può essere definita come quel punto di fuga del pensiero occidentale che, a partire dal XVI secolo, segna l’avvio di un processo di disincanto del mondo, di distanziamento della società dalla natura e dell’uomo dal cosmo. Tale processo, che sarebbe riduttivo definire di laicizzazione, è stato in realtà un processo di costruzione di un sofisticato modello di cultura che si traduce in tre fondamentali assunti.
In primo luogo la modernità si caratterizza per affermare la centralità dell’uomo rispetto al mondo e il suo divenire misura di tutte le cose; ciò comporta una continua osservazione da parte dell’uomo della sua stessa natura e la conseguente obbligazione di conoscere il mondo per conseguire la posizione di dominio che gli compete. La psicologia, in quanto conoscenza del sé, è davvero il prodotto più maturo della modernità.
Il secondo assunto è costituito dal privilegio accordato alla razionalità nel processo della conoscenza e, di conseguenza, dalla pratica di una fiducia profonda nel sapere come strumento di appropriazione (ma anche di invenzione) della realtà.
Infine il marchio più visibile della modernità è la fede nella possibilità di realizzare, per effetto della centralità dell’uomo e del privilegio del sapere, un ordine definitivo del mondo attraverso l’indefinito sviluppo della convivenza umana, il suo incessante progredire nel processo di emancipazione della persona, di dominio e trasformazione (si potrebbe anche dire creazione) del mondo.
Storia e crisi della modernità
Così interpretata la modernità altro non è che un modello culturale, il quale si sviluppa nell’occidente europeo in un ciclo storico definito: dal XIV al XX secolo sulla base di una datazione ampia, dalla rivoluzione scientifica alle grandi rivoluzioni tecnologiche della seconda metà del secolo scorso (XVII-XX). La particolare forza di questo modello culturale rispetto alle altre culture a livello mondiale si è mostrata vincente ed è divenuta dominante nel corso dei secoli. La modernità ha coinciso con il primato dell’Occidente europeo. È ciò che viene definito e vissuto appunto come “eurocentrismo” quale specifica fase di sviluppo della civiltà umana.
Tuttavia proprio per effetto della sua forza espansiva e di attrazione la modernità, come particolare modello di cultura, ha generato, al suo stesso interno una profonda revisione critica. La “critica alla modernità” si è sviluppata nella sconda metà del XIX secolo a partire dal pensiero e dall’opera di Nietzsche, ha trovato forza nella reazione al positivismo scientifico e, dopo il disastro della civiltà europea conseguente alla Prima guerra mondiale, ha dato il via ad un generale dibattito sui limiti stessi del pensiero moderno inteso appunto come “eurocentrico”. La crisi della modernità celebrata nel corso del XX secolo ha posto in evidenza alcuni cerchi viziosi sui quali il dibattito è ancor oggi aperto.
La centralità dell’uomo e il progressivo disincanto del mondo hanno finito per generare una desacralizzazione dell’humanitas, poi una polverizzazione individualistica («un individualismo estremista» o un «egoismo possessivo» o un «individualismo repressivo» sino a realizzare una soggettività che «minaccia di imprigionare l’individuo tutt’intero nella solitudine del suo cuore».
Il privilegio accordato alla razionalità come strumento della conoscenza ha realizzato, a sua volta, un processo di autolegittimazione della conoscenza scientifica e favorito la presunzione di una totale coincidenza tra verità ed emancipazione in virtù della sequenza ricerca scientifica – ricerca applicata – tecnologia – produzione di beni materiali – benessere – libertà. Si è assistito così all’insorgere di un primato della ragione strumentale, intendendo con ciò «il tipo di razionalità cui ci rifacciamo quando calcoliamo l’applicazione più economica dei mezzi disponibili a un fine dato». L’intreccio sempre più stretto tra potere e sapere, in luogo di fondare la nostra emancipazione, rischierebbe di soggiogare la mente e di ridurre a zero il grado della nostra libertà. Oggi la centralità dell’uomo ridotta a celebrazione dell’individualismo e il privilegio della razionalità ridotto a mitologia della ragione strumentale rischiano infine di dare scacco alla speranza-programma propria dell’età moderna di realizzare uno stabile ordine del mondo in vista dell’emancipazione della persona umana.
E così il terzo assunto della modernità, la fede nella possibilità di un progressivo sviluppo della socialità a misura umana e di un potere dal volto umano che la governi, minaccia ormai di trasformarsi in una sfiducia profonda, se non radicale, nei confronti della razionalità della città terrena. Detentore del sapere tecnologico e del potere della tecnologia, lo stato totalitario è divenuto, nel XX secolo, organizzatore di apparati repressivi formidabili che, ancor oggi, minacciano l’esistenza dei diritti del cittadino. A tal punto che si sono radicate correnti di pensiero e un vasto dibattito volti a celebrare il “declino” e il “tramonto” dell’Occidente come punto di arrivo terminale della cultura della modernità caratterizzati dalla pericolosa mutazione della ragione e degli scopi della socialità.
Sulla scorta della tre grandi rivoluzioni della seconda metà del XX, quella dalle fisica atomica (anni ’40), della biologia molecolare (anni ’50), dell’informatica (anni ’60) il dibattito sulla crisi della modernità sembra ormai avere trovato un punto di sbocco in un nuovo approccio interpretativo che definisce la modernità come un ciclo concluso dell’esperienza umana a vantaggio di un nuovo modello culturale e di una nuova civiltà davvero universale: il postmoderno.
I paradigmi fondanti del postmoderno
Va subito precisato che l’uso stesso del termine “postmodoerno” (e di “postmodernità”), lanciato negli anni ’80 del secolo scorso da François Lyotard come sfida per una critica radicale del razionalismo, raccoglie oggi tutte quelle istanze di revisione della cultura della modernità. É questo un tema, assai discusso e ricco di sfaccettature, che chiama una pluralità di interventi e interpretazioni e addirittura un nuovo linguaggio. J. Habermas definisce la modernità un “progetto incompiuto”1, Gehlen la interpreta come una cultura “cristallizzata” nella quale la “storia delle idee si è ormai conclusa”2; Vattimo coniuga la crisi della modernità con l’insorgere di un pensiero debole; Severino con un trionfo della tecnica che conduce alla irreversibile disumaniszzazione; sulla stessa linea interpretativo di un tramonto delle modernità si colloca Umberto Galimberti.
“Se la tecnica diventa quell’orizzonte ultimo a partire dal quale si dischiudono tutti i campi d’esperienza, se non è più l’esperienza che, reiterata, mette capo alla procedura tecnica, ma è la tecnica a porsi come condizione che decide il modo di fare esperienza, allora assistiamo a quel capovolgimento per cui soggetto della storia non è più l’uomo, ma la tecnica che, emancipatasi dalla condizione di mero «strumento», dispone della natura come suo fondo e dell’uomo come suo funzionario”3.
Paolo Rossi ho fornito un paradigma interpretativo del moderno rispetto al postmoderno sulla base delle seguenti categorie di opposizioni4:
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la cultura della modernità viene definita come caratterizzata da una ragione “forte” che costruisce spiegazioni totalizzanti del mondo;
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una ragione universalmente diffusa che fonda il concetto stesso di humanitas;
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una cultura dominata dall’idea di uno “sviluppo storico del pensiero come incessante e progressiva illuminazione”, appropriazione di conoscenze, garanzia di successo;
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che conferisce al pensiero scientifico una autoleggitimazione e assicura la coincidenza tra verità scientifica ed emancipazione morale e civile;
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che accetta una interpretazione della temporalità come lineare e quindi dal superamento e dal continuo susseguirsi di novità;
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infine sorretta dalla certezza dello sviluppo come evento o serie di eventi positivi (progresso) e della certezza di un positivo impatto della tecnologia come strumento capace di assicurare il dominio s e la previsione.
Per contro il postmoderno viene definito come un nuovo approccio culturale caratterizzato da;
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un progressivo indebolimento della razionalità e della messa in crisi del significato della storia;
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della pluralità dei modelli e paradigmi della razionalità non omogenei, vincolati al loro specifico campo di applicazione;
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un nuovo approccio culturale nel quale la scienza riconosce il suo carattere di discontinuità nella crescita e quindi l’imprevedibilità delle sue applicazioni;
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nel quale scienza e tecnologia non rilasciano più verità e anzi non appaiono in grado di garantire la libertà morale e materiale dell’uomo;
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infine una cultura caratterizzata dalla dissoluzione dell’idea del nuovo come conseguenza prevedibile e dominabile dello sviluppo e della conseguente affermazione del “nuovo” come valore in sé.
Oltre i confini di questo dibattito sulla contrapposizione modernità/postmodernità, dibattito ancora aperto e irrisolto, sono tuttavia da registrare nuove tendenze che vanno nella direzione non di una fine della modernità come modello culturale, ma come il suo superamento verso un nuovo orizzonte che è quello di una cultura universale che non comporta solo il trionfo di una minacciosa tecno-polis, ma la riscoperta di una nuova cosmo-polis.
Il paradigma della nuova cultura, una sorta di nuova modernità o di una modernità radicale, viene vissuta ad esempio da Edgard Morin come il costituirsi di “nuovi saperi” conseguenti alle tre grandi rivoluzioni del Novecento (quella atomica, biologica, informatica) che attribuiscono all’uomo nuove responsabilità di crescita e collaborazione a livello universale.
Noi non abbiamo le porte che aprano le chiavi di un avvenire migliore. “Hel camino se hace andar” (Antonio Machado). Ma possiamo individuare le nostre finalità: perseguire l’ominizzazione in virtù dell’accesso alla cittadinanza terrestre in una comunità planetaria5.
In particolare la nuova cultura del XXI secolo apre la strada a una radicale definizione del concetto stesso di Umanità:
L’Umanità ha cessato di essere una nozione solamente ideale: è divenuta una comunità di destino e solo la coscienza di questa comunità può condurla a una comunità di vita6.
Il che implica automaticamente una rifondazione del sapere e un rifondazione dell’uomo stesso, Jeremi Rifkin in un testo ormai classico ha definito questa fase di superamento del ciclo culturale della modernità come l’avvento di una nuova era della civiltà umana: “l’era dell’accesso” nella quale crollano tutti i tradizionali approcci della cultura capitalistica occidentale e nella quale la mercificazione della cultura da luogo alla “società della conoscenza”. Un modello di società nel quale si sviluppa anche una nuova antropologia. Si tratta della comparsa di un nuovo paradigma dell’essere umano che lo psicologo Robert J. Lifton ha annunciato così:
Un nuovo archetipo umano ha fatto la sua apparizione. L’uomo nuovo del ventunesimo secolo è profondamente diverso da coloro che l’ hanno preceduto, nonni e genitori borghesi dell’era industriale: si trova a suo agio trascorrendo parte della propria esistenza nei mondi virtuali del ciberspazio, ha familiarità con i meccanismi dell’economia delle reti, è meno interessato ad accumulare cose di quanto lo sia a vivere esperienze divertenti ed eccitanti, cambia maschera con rapidità per adattarsi a qualsiasi nuova situazione (reale o simulata)7.
Questa rivoluzione antropologica, trasforma l’uomo della modernità eurocentrica. Da attore della conquista di un potere assoluto sulla natura e sulle altre culture che hanno mantenuto un rapporto di amicizia/simpatia con la dimensione cosmica, egli diviene il navigatore delle reti che creano contatti tra innumerevoli universi culturali. Si tratta di una nuova antropologia che lascia appena intravedere una sorta di interazione/integrazione permanente tra Oriente e Occidente, Nord e Sud del mondo proprio sul tema centrale dell’approccio psicologico: la conoscenza di sé e la possibilità della costruzione di un soggetto davvero universale.
Antropologia del modello sistemico
Grazie all’avvento del postmoderno, un nuovo studio sull’essere umano può quindi essere fatto. Uno studio che non può fare a meno che aprirsi verso nuovi paradigmi culturali, integrando le differenti metodologie di pensiero, credenze e scoperte che l’uomo ha condotto adattandosi con gli strumenti comuni all’ambiente. Per strumenti comuni intendiamo in questa sede, quelle caratteristiche fisiologiche e neurologiche che dall’homo sapiens (i cui primi reperti sono datati fra i 500.000 e i 300.000 anni fa) a oggi sono rimaste pressoché immutate.
L’homo sapiens è l’ultima tappa nell’accrescimento del cervello, che arriva molto presto ad una media intorno ai 140 cc, quella attuale, con poche differenze tra maschi e femmine […] , ma con molta variazione tra individui8.
È opinione ormai accettata che da quel tempo l’uomo non ha fatto altro che apprendere come utilizzare meglio gli strumenti di cui disponeva. Il cervello, così come il corpo, era già completo, e con delle potenzialità in essere di incredibile utilità rispetto agli altri abitanti del pianeta. È questo il punto di forza che ha consentito alla specie di distanziarsi da tutti gli altri esseri viventi: la vera carta che abbiamo giocato, è stata una carta che solo il nostro cervello poteva leggere e tramandare: il linguaggio.
Linguaggio e gestione della complessità
Gli studi condotti da Steven Pinker, direttore del centro per le neuroscienze al Mussachasetts Institute of Technology, hanno certificato, come la nascita del linguaggio non sia un artefatto appreso, ma, citando le sue parole:
Il linguaggio è […] un pezzo a sé del corredo biologico del nostro cervello. Il linguaggio è un’abilità complessa e specializzata, che si sviluppa spontaneamente nel bambino senza sforzo conscio o istruzione formale, che viene usato senza la coscienza della sua struttura logica, che è qualitativamente lo stesso in ogni individuo e che è distinto da capacità più generali, come l’elaborare informazioni o il comportarsi in modo intelligente9.
Pinker si spinge oltre, affermando che è il linguaggio è la manifestazione di un struttura psichica comune a tutti gli esseri umani, superando le teorie sul determinismo linguistico che vedono nel linguaggio come causa della differenza di pensiero tra le varie popolazioni.
Noi ritagliamo la natura, la organizziamo in concetti, le diamo significato, in gran parte perché ci siamo accordati per organizzarla in questo modo; un accordo, il nostro, che vale nella comunità linguistica a cui apparteniamo e che è codificato nelle forme della nostra lingua. L’accordo è ovviamente implicito e tacito, ma i suoi terreni sono assolutamente obbligatori; non abbiamo nessuna possibilità di parlare se non accettando l’organizzazione e la classificazione dei dati che esso decreta10.
Scartando queste ipotesi, osserviamo che il linguaggio è una sistema di organizzazione istintivo; ma per quale motivo è stato tanto affinato dall’uomo? Perché, nel suo cammino evolutivo, l’uomo ha puntato tanto su di esso? Quali sono i reali vantaggi di un uso metodico e sistematizzato del linguaggio?
Partendo dal presupposto che tutti gli esseri viventi in qualche modo comunicano, il vantaggio del linguaggio appare quindi evidente nella possibilità di riferire in maniera chiara, precisa e completa le esperienze; esperienze che si vanno arricchendo in quanto cumulabili.
Un punto in più che si aggiunge ad ogni generazione che nasce, solo per il fatto di essere figlia di una generazione precedente. In una parola: cultura.
Si può quindi affermare che è proprio il linguaggio il motore primo della cultura: un pacchetto in continua crescita e metamorfosi che viaggia attraverso il tempo, di generazione in generazione.
La cultura, quindi, porta con sé un crescente grado di complessità del mondo in cui l’uomo si colloca. Complessità che cresce con la crescita della cultura stessa, e che rischia, una volta portata all’accesso, di schiacciare l’uomo in un universo di iperconoscenza.
Essendo, infatti, il cervello umano un sistema chiuso, che da centinaia di migliaia di anni ha stabilizzato la sua evoluzione, una indiscriminata e incontrollata crescita delle forme culturali porterebbe il sistema in sovraccarico, rischiando di farlo collassare.
Degno di nota in questo campo è lo studio condotto da A.R. Lurija (1979), nel suo testo Viaggio nella mente di un nomo che non dimenticava nulla. È la storia di un uomo dotato di una memoria prodigiosa che invade tutto il suo mondo, condizionandone lo stile di vita, la personalità, e rendendo spesso impercettibili i confini tra realtà e fantasia.
Come mai in una persona sana questo non avviene?
Un sistema neurologico funzionante adotta automaticamente a livello istintivo (allo stesso modo che per il linguaggio quindi) dei metodi che consentono di gestire in maniera efficiente gli stimoli esterni e le pulsioni interne. Viene cioè fatta una scelta a livello inconscio di ciò che vale la pena osservare e ciò che è considerato superfluo. È su questa scelta inconscia che si basa la nostra concezione del mondo.
Ci si può spingere ancora più avanti, così come il cervello elabora degli strumenti per gestire la complessità del mondo in cui agisce, così la cultura si struttura su un sistema di gestione della complessità che essa stessa produce.
Possiamo quindi affermare che la cultura, in quanto strumento più efficace ai fini evolutivi delle specie, è un sistema che al tempo stesso genera e gestisce complessità. Questa è la sua grande forza, e la ragione per la quale la nostra specie, avendone la possibilità, l’ha abbracciata facendo di essa la sua arma più affilata nella lotta per l’evoluzione e la sopravvivenza.
Da quando gli antenati dell’Homo Sapiens hanno lasciato il continente Africano, è cominciato un lungo processo di adattamento e di apprendimento di nuove facoltà. Lentamente il linguaggio, e con lui la cultura hanno cominciato a essere utilizzati come strumenti efficaci per la supremazia sul pianeta. Ogni popolo, a seconda delle condizioni climatiche e ambientali che si è visto costretto ad affrontare, ha elaborato un suo sistema di gestione della complessità, che ha imposto, insieme al linguaggio, differenti strutture di pensiero.
Conflitti culturali, come: la grande scissione tra oriente e occidente, le intolleranze religiose, le incomprensioni etiche, e tutto quanto riduce la possibilità di comprensione tra le genti, hanno origine da questo.
È il paradigma della torre di Babele. Il libro della Genesi narra infatti che in un tempo remoto tutti gli uomini parlavano un’unica lingua; consapevoli dell’importanza di questo decisero di costruire un’unica città in cui vivere per non disperdersi, consci del potere di cui erano in possesso, al centro della città decisero di erigere una grande torre. Ma Dio, vedendo questo si preoccupò del fatto che avrebbero potuto con le sole loro forze raggiungere il paradiso e disse: “Ecco essi sono un unico popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile, scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro11”. Così Dio li disperse per tutta la terra confondendo la loro lingua.
Con l’avvento dell’era dell’accesso e dei processi di modernizzazione12 una nuova Babele sta sorgendo; siamo solo ai primi gradini, ma già da qui abbiamo acquisito una nuova visibilità sul mondo che ci circonda.
La consapevolezza di differenti sistemi di gestione della complessità ugualmente validi, la nascita di un individuo padrone di se stesso e radicato in una sostanziale soggettività, ha cambiato il modo di osservare il mondo e ha dato al singolo la possibilità socialmente riconosciuta e accettata di scegliere quali modelli culturali, e di conseguenza quali strumenti di gestione della complessità ritiene più adatti per il suo sviluppo.
Per operare tale scelta è di estrema importanza conoscere quali sono i paradigmi della cultura in cui si nasce e in cui si sviluppa il linguaggio e il pensiero nei primi anni di vita.
Il pensiero occidentale ha trovato nel metodo scientifico uno strumento di supremazia sugli altri modelli culturali; negli ultimi decenni, grazie alla crisi della modernità di cui si è già ampiamente trattato, ci è stato possibile rivedere i paradigmi della nostra cultura in un ottica di possibile integrazione tra pensiero tradizionale e alternativo
La ragione per cui il metodo scientifico si è mostrato uno strumento assolutamente infallibile è, naturalmente, proprio il linguaggio: chiaro, preciso e riferito sempre a singoli elementi stabili data la loro imprescindibile verificabilità.
La struttura del pensiero scientifico
Si deve, come noto, a Galileo Galilei il decisivo contributo alla scienza moderna, tanto da esserne considerato il padre; anche se Galilei non espose mai in modo sistematico le sue metodologie, ma si limitò semplicemente a teorizzarle ed applicarle durante le sue sperimentazioni, i molti studi fatti in seguito ne hanno consentito una valida schematizzazione individuando un metodo per procedere nello studio dei fenomeni.
Inizialmente si divide il lavoro in un momento risolutivo e in uno compositivo. Nel primo si ha lo studio degli elementi semplici quantitativi e misurabili e si formula un’ipotesi matematica della legge. Il secondo momento è costituito dalla verifica e dall’esperimento, in base al risultato si controlla la verità dell’ipotesi ; se essa viene confermata diviene legge. Nel caso contrario lo scienziato è costretto ad avanzare un’altra ipotesi, e così via; una delle probabili ragioni per cui Galileo non fissò mai le tappe del suo metodo è dovuto alla necessità di una compresenza fra l’indagine empirico induttiva e il momento ipotetico deduttivo; dalla possibilità di immaginare, intuire, relazioni apparentemente inesistenti, in taluni casi l’esperienza empirica va anteposta ad ogni discorso, ma in altri no, come afferma lo stesso Galileo:
Senza esperienza son sicuro che l’effetto seguirà come vi dico, perché così è necessario che segua13.
Questo significa che egli in certi casi, come nelle leggi sulle fasi di Venere, procede dall’osservazione di casi particolari giungendo ad una legge generale quindi per via empirica. In altri, come il principio d’inerzia o la caduta dei gravi, parte da ragionamenti logico matematici scaturiti da un’intuizione di base e procedendo per supposizioni formula la teoria; a questo punto lo scienziato si riserva la verifica.
L’oscillazione fra induttivismo e deduttivismo ha dato vita a diverse interpretazioni anche se si può affermare che fra i due differenti aspetti vi è una relazione tanto stretta da renderli indissolubili.
La relazione quindi sembra il vero elemento fondante del pensiero scientifico, relazione che, riprendendo le parole di Galileo sopra citate, è una sicurezza, di più: è la consapevolezza di ciò che è corretto.
Questo concetto di relazione, è stato a,lungo analizzato da un filosofo e semiologo americano, le cui opere solo recentemente stanno emergendo come uno dei massimi picchi concettuali del pensiero statunitense: Charles Sanders Peirce.
Pierce pone al centro del ragionamento scientifico il concetto di abduzione:
L’abduzione è “ il primo passo del ragionamento scientifico” e “l’unico tipo di argomento che origina una nuova idea” Inoltre l’abduzione è associata con, o meglio produce, […] un certo tipo di emozione, che la distingue nettamente da induzione e deduzione14.
L’abduzione prende lo spunto dai fatti, senza all’inizio, avere alcuna particolare teoria in vista, benché sia motivata dalla sensazione che si richiede una teoria per spiegare fatti sorprendenti. L’induzione prende lo spunto da un’ipotesi che sembra raccomandarsi senza avere all’inizio alcun particolare fatto in vista, benché ci sia la sensazione di avere bisogno di fatti per sostenere una teoria. L’abduzione cerca una teoria. L’induzione cerca dei fatti.
Nell’abduzione la considerazione dei fatti suggerisce l’ipotesi.
Nell’induzione lo studio delle ipotesi suggerisce gli elementi che portano alla luce i fatti autentici a cui l’ipotesi mirava15. (Peirce 1929)
Per Peirce, il vero ragionamento fondamentale e la vera inferenza essenziale non é quella induttiva né quella deduttiva, è quella “abduttiva”, cioè la capacità di formulare delle ipotesi plausibili, avanzare delle istanze probabili, e l’abduzione procede, come segue, secondo un esempio di Peirce: si va non dal presente alle conseguenze come nella induzione ma anzi si va dall’antecedente alle conseguenze. L’abduzione, cioè la probabilità del ragionamento probabile, procede supponendo uno stato di cose antecedente non osservabile che spiega uno stato di cose presente osservabile. Peirce ragionava con i sacchi di fagioli e l’estrazione dei fagioli per vedere se sono bianchi o neri; secondo la sua esemplificazione se su questo tavolo ci sono fagioli bianchi e se nella stanza ci sono vari sacchi di fagioli ma uno solo contiene fagioli bianchi allora io ne devo “abdurre”, devo trarne l’ipotesi, che questi fagioli bianchi siano stati tratti da quel sacco anche se io non ho osservato questa realtà; non sono stato presente a questo fenomeno.
Così, secondo Peirce, ragiona l’uomo. Per questa via l’uomo ottiene successo nelle sue inferenze razionali e su questa base è impiantabile un metodo della ricerca scientifica che ha nell’induzione certo la sua verifica, ma ha nell’abduzione il suo fondamento.
Seguendo questo principio è forse possibile declinare un denominatore comune di molte forme culturali differenti: il concetto di trinità. Abbandonando per un attimo il pensiero cristiano (che comunque rientra nel modello che si può abdurre ) il concetto di trinità, inteso come una struttura di tre elementi con una particolare legame ricorre in religione, filosofia, antropologia, psicologia, fisica, neurologia e in molti altri modelli culturali.
Il modello culturale fondato su tre elementi è un dato sorprendentemente ricorrente nella maggior parte delle culture e delle civiltà; senza voler affrontare un ragionamento di tipo numerologico sul significato intriseco del numero tre e sul rapporto tra pari e dispari, la semplice osservazione delle congruenze tra metodi e modelli differenti può dare una chiave interpretativa intiuitiva del macro modello a cui questi fanno riferimento.
Leggendo un qualunque manuale di storia delle religioni di sociologia o di antropologia la ricorrenza del concetto di trinità riscontrabili balza subito agli occhi.
Di seguito segue una sommaria rapprentazione di questa ricorrenza, che vuole solo essere esemplificativa del modello. L’obiettivo è appunto quello di far emergere il significato della ricorrenza, senza riflessioni storiche e pregiudizi culturali, ma come se fossero una realtà antropologica manifesta di un aspetto comune a tutti gli esseri umani. Ci si soffermerà solamente su quei modelli, dal carattere di maggiore universalità.
Procedendo quindi diciamo che, per Vico gli elementi che si devono riscontrare in un gruppo di esseri umani per poterli definire società sono tre: la religione, la sepoltura dei cadaveri e la contrazione di matrimoni.
Per Freud sono tre gli stati dell’io: io es e super io, così come sono tre i tabù delle società totemiche.
Il cristianesimo si fonda sulla trinità Padre figlio e spirito santo
Nell’Induismo tre sono le divinità maggiori: Bramha Vishnu e Shiva, dove Bramha è l’assoluto, Vishnu la forza creatrice e Shiva quella distruttrice.
Mc Lean sviluppa una concezione del cervello dell’uomo come uno e trino, in quanto in sé il paleocefalo (struttura ereditata dai rettili nella quale risiedono o, per meglio dire, che è la fonte, di aggressività, calore e pulsioni primarie), il mesocefalo (eredità degli antichi mammiferi in cui cono connessi tra loro sviluppo dell’affettività e memoria a lungo termine) e la corteccia, che nei mammiferi cresce fino a racchiudere tutte le strutture dell’encefalo e a formare i due emisferi cerebrali.
Secondo la filosofia taoista, che porta con sé le fondamenta, in ogni sua forma ed espressione, di tutto il pensiero cinese sono tre gli elementi fondamentali, che rappresentano la struttura e al tempo stesso l’origine del mondo: Yin, Yang e Tao
La creazione dell’universo si avviò da uno stato di suprema vacuità, di vuoto senza limiti chiamato wuji. Il Wuji quindi esiste prima che qualsiasi cosa accada: quando da esso qualcosa sorge la condizione originaria di vuoto cessa, ed è a questo punto che si manifesta il taiji.
Col taiji si entra nel mondo della dualità [ dove regnano lo yin e lo yan ], il mondo che noi tutti conosciamo.
Lo yin e lo yang sono soltanto delle manifestazioni transitorie del Tao che governa il reale , sono degli emblemi provvisti di una potenza evocativa indefinita e totale16.
I popoli indoeuropei articolarono la loro struttura sociale intorno a tre funzioni in cui divisero le caste sociali: la prima funzione governava il patrimonio mitico e rituale, la seconda funzione esprimeva l’attività bellica, la terza tutte le attività economico e produttive.
Cesare nella guerra gallica, afferma che le popolazioni dei Celti e dei Germani venerava solo gli dei che erano in grado di vedere e da cui traevano giovamento o castigo in modo diretto: il Sole il Vulcano e la Luna.
Anche nella Roma antica incontriamo svariate triadi: Giove, Marte e Quirino che formano la triade arcaica, perfettamente simmetrica alla triade iguvina formata da Giove, Marte e Vofionus. La triade arcaica, o pre – capitolina fu sostituita dalla triade Capitolina Giove, Giunone, Minerva; anche’essa ispirata dalla triade greca Zeus, Era e Athena.
Nella filosofia tantrica sono tre le vie da percorrere per raggiungere la liberazione: la pronuncia di Mantra (parole e suoni che racchiudono in sé il potere divino) la meditazione sui Mandala (diagrammi dell’universo e percorsi della mente in meditazione), e la concentrazione sulle Mudra (gesti delle mani e posizioni del corpo che simboleggiano concetti metafisici).
E proseguendo così potermmo elencare ancora moltissime terzià (definite in tal modo dallo stesso Peirce), riscontrabili come detto in altrettante forme culturali.
Procedendo col metodo di analisi del filosofo americano, a questo punto non resta altro che porci un’abduzione come domanda, o per meglio dire, tirare a indovinare, nella speranza che l’intuizione che ha originato tutto questo flusso di pensiero porti verso quel bagliore lontano che l’intuito ci ha segnalato.
Un oggetto qualsiasi presenta una straordinaria combinazione di caratteristiche delle quali noi vorremmo avere una spiegazione. Che esista una spiegazione di esse è solo una assunzione; e se c’è, è un qualche fatto sconosciuto che le spiega; mentre ci sarebbero, poniamo, un migliaio di altre spiegazioni possibili se non fossero, sfortunatamente, tutte false. Viene trovato, in una strada di New York, un uomo pugnalato alla schiena. Il capo della polizia potrebbe prendere un elenco anagrafico, puntare il dito su un nome qualsiasi e provare a vedere se si tratta dell’assassino. Che valore avrebbe un simile tentativo? Eppure il numero di nomi di un elenco anagrafico non è neppure paragonabile alla molteplicità di leggi d’attrazione che avrebbero potuto accordarsi con la legge di Keplero del moto planetario e, in attesa di una verifica […] l’accordo sarebbe stato perfetto. Newton […] assunse che la legge avrebbe dovuto essere semplice. Ma che altro è questo se non un tentativo di tirare a indovinare? Sicuramente vi sono in natura più fenomeni complessi di quanti ve ne siano di semplici… non siamo autorizzati a fare di più che porre [una abduzione] come domanda17.
L’errore di Cartesio
Come Socrate affermava uno dei principali scopi dell’uomo nel suo viaggio nella vita è la conoscenza. Conoscenza che parte in primo luogo da un desiderio, e che in prima istanza deve essere riferito a sé stessi. Comprendersi, per meglio potersi adattare all’ambiente, diviene quindi lo scopo primo della nascita della cultura, in seno a un paradosso grande come la storia dell’umanità: l’uomo non può definirsi tale se non si interroga sulla sua natura, e l’unica risposta che sembra possibile è che questa risposta probabilmente non esiste. Poiché un’abduzione ad una domanda senza scopo genera infiniti contesti e ipotesi possibili, per l’uomo la ricerca non si può arrestare; è un bisogno senza scopo (in quanto impossibile da soddisfare per ipotesi) che in silenzio guida ogni sua azione.
C’è da chiedersi se non sia stato proprio guidato da questa spinta lo sviluppo della cultura, e che quindi questa non faccia altro, nelle sue infinite manifestazioni, se non rivelare la natura dell’essere umano. Affermare che l’uomo sia composto da tre elementi: mente, anima e corpo, legati insieme e in continua relazione, non è certo una novità. Alla luce però delle riflessioni fatte sinora il legame di quasti tre elementi assume un significato più profondo.
Le dinamiche di questa relazione, sono presenti in tutte le trinità sopra citate e la loro struttura si mantiene in modo più o meno specifico; quando i tre elementi non fanno un preciso riferimento alla sfera fisica, emotiva e spirituale dell’individuo, mantengono una struttura metafisica che trova la sua forma più chiara e semplice nel Tao cinese. Due elementi che si contrappongono e si bilanciano e uno che li comprende, li giustifica e li mantiene in equilibrio.
Che tra corpo e mente vi sia un legame indissolubile è una scoperta che è stata possibile all’occidente solo di recente, in buona parte grazie alle scoperte in campo neuroscentifico.
Per secoli l’attenzione della cultura occidentale ai processi mentali è stata tanto vincolante da consentire lo sviluppo di un individuo in cui la natura umana è stata associata solo e unicamente alla ragione.
Nel discorso sul metodo, Cartesio, attraverso una sofisticata concatenazione di passaggi logici afferma: Cogito ergo sum18 (Dubito di tutto fuorchè del fatto che io dubito. E, dubitando, io penso e se penso esisto); creando da questo pensiero un mondo bilanciato in un dualismo perfetto.
Lo stampo del suo pensiero ha marchiato in modo indelebile lo sviluppo delle scienze e della cultura di tutto l’occidente.
È suggestivo pensare che Cartesio contribuì a modificare il corso della medicina, a far sì che essa deviasse dall’orientamento organico, o meglio, “organistico” che era prevalso dai tempi di Ippocrate fino al Rinascimento19.
Ma l’abbandono dell’attenzione al corpo nella nostra cultura non ha certo origine da Cartesio, che più che altro né è una vittima. L’idea di un uomo votato a una logica, sinonimo di potere divino è da ricercare nella culla della nostra civiltà, nel pensiero di colui che a ragion veduta viene definito come l’uomo che diede ordine al mondo: Aristotele.
Il passaggio dalla filosofia pre-aristotelica, al pensiero di Aristotele è splendidamente descritto da Robert M. Pirsig nel suo libro lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. Tutta l’analisi di Pirsig del pensiero classico ruota intorno al concetto di aretè, che lui stesso definisce come mal tradotto dal termine virtù.
Aretè infatti è un concetto che porta con sé un significato molto più complesso e profondo. Il concetto di “dovere nei confronti di se stessi”, che è la traduzione pressoché esatta del termine sanscrito dharma, e che a volte, è descritto come l’ “uno” degli indù. È possibile che il dharma degli indù e la “virtù” degli antichi greci siano identici?
Qualità! Virtù! Dharma! Ecco cosa insegnavano i sofisti, non la relatività della morale. Non la “virtù” ideale, ma l’aretè, l’eccellenza, il dharma!20
La ricerca di Pirsig è tesa a comprendere come mai nel passaggio dalla filosofia socratica a quella aristotelica questo significato viene a perdersi, trasformando l’aretè in semplice virtù. Il passaggio tra le due filosofie è ovviamente nel pensiero di Platone.
Perché distruggere l’aretè? […] Platone non aveva affatto cercato di distruggere l’aretè. L’aveva incapsulata, ne aveva fatto un’Idea permanente e immutabile. […] L’aretè era divenuta il Bene, la forma più alta, l’Idea più elevata. […] Platone dà all’aretè una posizione di grande onore, subordinandola solo alla Verità stessa e alla dialettica, il metodo attraverso il quale si giunge alla verità. Ma in questo suo tentativo di unire il Bene e la verità egli usurpa il posto dell’aretè e mette al suo posto la Verità dialetticamente determinata. Una volta che il bene viene delimitato come idea dialettica un’ altro filosofo non avrà difficoltà a dimostrare con metodi dialettici che l’aretè, il Bene, si può con vantaggio sistemare in una posizione più bassa all’interno del “vero” ordine delle cose. Il suo nome era Aristotele21.
(Pirsig 1974)
Forte appunto del lavoro del suo maestro Platone, Aristotele ha con sé tutti gli strumenti per dare una sistemazione logica del mondo a suo piacimento.
Il lavoro di categorizzazione, e di sistemazione di tutti gli aspetti della vita in una gerarchia precisa e preordinata diviene solo un fatto meccanico, grazie al nuovo potere che la dialettica ha acquisito; così, le forme immutabili ed eterne, le Idee, rappresentate dal solido platonico vengono poste in secondo piano rispetto agli oggetti reali.
Le apparenze si aggrappano a qualcosa che è indipendente da loro e che come le Idee è immutabile. Questo “qualcosa” lo chiamò sostanza. In quel momento, e non prima, nacque la nostra moderna concezione del pensiero scientifico22.
E così Aristotele comincia la sua analisi di un modo permeato da materia e sostanza; il Bene non è più un concetto assoluto, ma diviene una branca secondaria della conoscenza e viene incasellato nella gerarchia delle cose sotto il nome di etica. Il solido platonico cambia di forma e natura, non è più fatto di un materiale mutevole e impalpabile, ma diventa più che mai una figura immutabile; il vuoto non esiste più, il modo è ora visto come una struttura composta da mattoni strettamente legati uno sull’alto in cui non c’è spazio per trasformazione o cambiamento.
L’aretè è morta e la scienza, la logia […] ricevono qui il loro atto costitutivo e la loro missione: di trovare e inventare un’infinita proliferazione di forme riguardanti gli elementi sostanziali del mondo e di chiamare queste forme conoscenza, trasmettendole alle generazioni future. È la nascita del “sistema”23.
Ed è proprio spinto dalla foga di questi ragionamenti, dall’ossessione per la logica e per il ragionamento sistemico che Aristotele commette il più grande degli errori.
Nella sua divisione e gerarchizzazione del mondo il filosofo spacca l’universo in due: mythos e logos. Intendendo per mythos la capacità creativa di immaginazione, narrazione e sviluppo artistico dell’essere umano; e per logos la capacità di ragionare, conoscere e sistematizzare.
Da allora l’uomo ha la possibilità di leggere il mondo attraverso queste due lenti, lo spirito (il mythos) e la mente (il logos).
E il corpo? Il corpus? Dove sono finite le pulsioni prime dell’essere umano?
Probabilmente un mondo in cui anche le emozioni e i sentimenti influivano nelle scelte e nelle azioni umane era troppo complesso, o addirittura inconciliabile con il sistema di Aristotele, o forse semplicemente il filosofo considerò queste come un retaggio del passato, un qualche cosa di cui l’uomo attraverso la sua nuova e impeccabile visione del mondo si sarebbe riuscito a liberare. Mille ipotesi si possono fare, ma il dato di fatto resta che questa divisione del mondo ha impresso a fuoco uno stampo indelebile in tutto il pensiero occidentale.
1 Jürgen Habermas (1987), Il discorso filosofico della modernità, p. 12
2 Gehlen, citato in Jürgen Habermas (1987), Il discorso filosofico della modernità, p. 16
3 Galimberti (1999)Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, p. 34
4 P. Rossi (1989), Paragone degli ingegni moderni e postmoderni, p. 34
5 E.Morin (1999),I sette saperi necessari all’educazione del futuro, p. 121
6 E.Morin (1999),I sette saperi necessari all’educazione del futuro, p. 120
7 Rifkin Jeremj (2000), L’era dell’accesso, la rivoluzione della new economy, p.314
8 Cavalli-Sforza (1993), Chi siamo, la storia della diversità umana, p. 73.
9 Pinker Steven (1997), L’istinto del linguaggio, Come la mente crea il linguaggio, p.10
10 Whorf (1956), citato in Pinker 1994, p. 51
11 La Sacra Bibbia (1987), Genesi: 11, 1-9
12 J. Rifkin (2000).
13 Galileo (1610), Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano, e-book di Google.
14 Eco-Sebeok (1983), Il segno dei tre Holmes, Dupin, Peirce.
15 Peirce (1929), Guessing, in The Hound and Horn 2: 267-282, citato in Eco-Sebeok (1983).
16 Occhipinti (1995), Il Quigong, L’arte cinese del respiro, p. 9.
17 Peirce (1929), Guessing, in The Hound and Horn 2: 267-282, citato in Eco-Sebeok (1983).
18 Cartesio (1937), Discorso sul metodo, e-book Mondadori.
19 Damasio (1995), L’errore di Cartesio, p. 341
20 Pirsing (1974), Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, p. 360.
21 Ibidem, p. 365.
22 Ibidem, p. 363.
23 Ibidem, p. 364.